"Come uscire dalla crisi" a Capannori Volpi ed il Social Watch

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L’Osservatorio per la Pace organizza

COME USCIRE DALLA CRISI, incontro con il Prof A. Volpi e il Social Watch

venerdì 4 marzo · 21.00 – 23.30

Sala Riunioni COMUNE DI CAPANNORI, Capannori

Relatori

– Alessandro Volpi, docente di Storia Contemporanea ed Economia, Pisa

– Giorgio del Ghingaro, sindaco di Capannori

– Jason Nardi, coordinatore per l’Italia del Social Watch

– Giulio Sensi, Social Watch

– Roberto Sensi

SOCIAL WATCH: POLITICHE SOCIALI, ITALIA IN CADUTA LIBERA
Una visione di corto respiro e l’indebolimento dei servizi sociali impediscono al nostro Paese di affrontare i veri
nodi della crisi. A partire dalla condizione femminile.

Un paese che scivola in basso, incapace di affrontare la crisi economica e di guardare al
futuro. Il rapporto 2010 del Social Watch, rete della società civile attiva in oltre 60 paesi, descrive la “caduta
libera dell’Italia” attraverso indici e statistiche ufficiali. Ne emerge un quadro poco rassicurante. A partire dalla condizione della donna, uno degli indicatori principali dello stato di salute di una società. Nel 2009, per la prima volta dal 1996, il tasso di occupazione femminile ha fatto registrare segno negativo, scendendo al 46,4% e
mostrando un ulteriore peggioramento nel 2010. Una decisa inversione di tendenza dopo che l’occupazione delle donne era salita dal 1996 al 2009 di quasi 10 punti percentuali. La partecipazione delle donne al mercato del lavoro è resa difficile dalla cronica carenza di strumenti per conciliare gli impegni familiari e la professione. Il
tasso di inattività femminile è particolarmente elevato e negli ultimi anni ha toccato il 50%, circa 13 punti oltre
la media UE. Sebbene il numero di donne che conseguono la laurea sia da anni maggiore di quello degli uomini,
le donne sono solo il 21% dei deputati e il 18,3% dei senatori. Un dato che colloca l’Italia al 56° posto nella
classifica mondiale per la presenza femminile in Parlamento. Inoltre, solo poco meno del 10% dei sindaci è
donna. “Questa situazione non è solo conseguenza della crisi finanziaria, ma anche di politiche che colpiscono
l’universalità dei diritti e la coesione sociale, promosse in una logica di corto respiro”, commenta Jason Nardi,
portavoce di Social Watch Italia. “Se questo rapporto, partendo dalla situazione mondiale, guarda al ‘dopo la
caduta’ con la prospettiva di una ripresa, in Italia la situazione è ancora proiettata verso il basso: si continua a cadere”.

Famiglie, immigrati e rom
Secondo l’Istat, il reddito disponibile delle famiglie italiane ha risentito molto della crisi che ha ridotto il potere
d’acquisto del 2,5% nel 2009. La povertà assoluta è cresciuta in due anni dal 4,1 al 4,7% delle famiglie (oltre 3
milioni di persone), con una particolare incidenza nel Mezzogiorno, dove è aumentata di quasi 2 punti
percentuali arrivando al 7,7%. La crisi ha colpito anche gli immigrati. Tuttavia, le poche risorse disponibili sono
state investite nel contrasto all’immigrazione illegale invece di essere impiegate per favorire una maggiore
integrazione. L’Italia continua a trattare gli oltre quattro milioni di stranieri che vivono sul nostro territorio come ospiti indesiderati. In questa direzione vanno misure come il permesso di soggiorno a punti e la regolarizzazione selettiva del 2009. Inadeguate sono anche le politiche abitative adottate per le comunità rom, in molti casi discriminate e costrette a subire demolizioni e sgomberi forzati che violano i loro diritti umani, mettendole a rischio di ulteriori abusi.

Giovani
La crisi ha portato nel 2009 a una forte diminuzione dei posti di lavoro per i più giovani. Il numero di giovani
occupati è sceso di circa 300 mila unità, cifra che rappresenta il 79% del calo complessivo dell’occupazione. Tale
rischio è esemplificato dal costante aumento dei cosiddetti Neet (Not in education, employment or training), i
giovani che non lavorano e non frequentano nessun corso di studi o formazione. In Italia, il 21,2% dei
giovani tra 15 e 29 anni può essere classificato come Neet. Si tratta del peggior risultato in Europa.
Attualmente, sono oltre due milioni i giovani che in Italia non studiano e non lavorano, e la maggioranza di
questi (65,8%) non è neppure alla ricerca di un’occupazione.

Le raccomandazioni del Social Watch per uscire dalla crisi
Fortunatamente ci sono anche segnali positivi, come dimostrano le molte iniziative della società civile italiana.
“Rimettere al centro i diritti e invertire l’attuale tendenza sembrano essere le uniche vie d’uscita”, osserva Nardi.
“Un’inversione di marcia è assolutamente necessaria perché il Paese si rialzi dalla brutta caduta. Affinché
riprenda ad andare nella direzione di uno sviluppo sociale equo”.
Con un debito pubblico fuori controllo (oltre il 118%, il secondo in Europa dopo la Grecia) e forti tagli ai servizi essenziali, occorre che l’Italia faccia uno sforzo per aumentare le entrate nelle casse dello stato, intensificando la battaglia all’elusione e all’evasione fiscale e restituendo risorse agli enti locali.
Secondo il Social Watch, si può uscire dalla crisi introducendo maggiore equità fiscale attraverso tre misure. In
primis, un’imposta patrimoniale una tantum per far fronte alla crisi. L’imposta colpirebbe con un’aliquota del 5
per mille tutti i patrimoni al di sopra dei 5 milioni di euro. La coalizione propone inoltre di elevare l’aliquota della tassazione delle rendite finanziarie dal 12,5% al livello medio europeo del 20%. La terza misura consiste in
una tassa internazionale sulle transazioni finanziarie per ridurre la volatilità dei mercati finanziari e far pagare la crisi in primo luogo a chi ha causato la bolla speculativa esplosa nel 2008. Dalla tassa si possono ricavare anche risorse da destinare ai paesi in via di sviluppo e alla lotta contro i cambiamenti climatici. Il Social Watch chiede inoltre di estendere gli ammortizzatori sociali ai lavoratori precari; modificare le politiche migratorie, passando da un approccio basato su economia e sicurezza a un altro fondato su diritti e cittadinanza; assicurare maggiore eguaglianza tra uomo e donna con l’introduzione del cosiddetto bilancio di genere; rilanciare l’economia puntando su quella verde e sulle filiere locali.
“La crescita che vogliamo”, conclude Nardi, “è quella dei diritti sociali e del benessere, prima che del PIL. Come
dimostriamo da anni, le due cose non vanno di pari passo e dopo il salvataggio della finanza, per il quale sono
state versate ingenti risorse pubbliche sottratte ai cittadini, è tempo per un nuovo patto sociale che riparta dalle persone.”
Per ulteriori informazioni: Gabriele Carchella; Cell +39 320 4777 895 Email: gabriele.carchella@oxfamitalia.org ;
www.socialwatch.it

LOTTA CONTRO LA POVERTA’: FRENA LO SVILUPPO,MILIONI ANCORA A RISCHIO
Salvate le banche ma non i poveri. Nel 2010 gli Obiettivi di Sivluppo del Millennio sono ancora un miraggio.
Lo denuncia il nuovo rapporto del Social Watch
Roma, 17 febbraio 2011 – La lotta contro la povertà rallenta da troppi anni, costringendo milioni di persone a
vivere in condizioni inaccettabili. Una tendenza che si registra a partire proprio dal 2000, anno in cui furono
concordati i dieci Obiettivi di Sviluppo del Millennio in sede Onu. Lo rivela il rapporto 2010 del Social Watch, rete di oltre 400 organizzazioni non governative presente in più di 60 paesi. Il rapporto, intitolato “Dopo la caduta”, conferma che alla crescita economica spesso non si accompagna un miglioramento degli indicatori sociali e che il progresso nella riduzione della povertà, seppur presente, è troppo lento. “Ancora una volta i dati dimostrano che lo sviluppo economico non è sinonimo di maggiore giustizia sociale. I movimenti sociali in Tunisia e in Egitto sono un segnale chiaro che i diritti fondamentali e un’equilibrata distribuzione della ricchezza sono irrinunciabili a qualunque latitudine Per questo è necessario utilizzare indicatori che tengano conto non solo della ricchezza prodotta, ma anche della possibilità per i cittadini di usufruire dei servizi essenziali che garantiscono i diritti di tutti”, dichiara Jason Nardi, portavoce di Social Watch Italia. “Se i poveri fossero una banca, sarebbero stati salvati. E’ quanto viene da pensare quando si confronta la cifra necessaria a raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, stimata in circa 100 miliardi di dollari l’anno, con le migliaia di miliardi di dollari pubblici sborsati negli ultimi due anni per salvare le banche dal fallimento. A questo ritmo sarà molto difficile raggiungere gli Obiettivi del Millennio entro il 2015”.
Per misurare lo sviluppo di una nazione, il Social Watch ha messo a punto l’indice delle capacità di base (BCI,
Basic Capabilities Index). Si tratta di un indice alternativo che definisce la povertà non in termini di reddito, ma in base alla possibilità di godere di alcuni diritti fondamentali. In particolare, per il calcolo dell’indice vengono considerati la percentuale di bambini che arriva alla quinta elementare, la sopravvivenza fino ai cinque anni di età e la percentuale di nascite assistite da personale qualificato.
Se il reddito pro capite è cresciuto del 17% a livello mondiale nel periodo 1990-2000 e del 19% tra il 2000 e il
2009, il BCI mostra una tendenza opposta. L’indice passa infatti dal più 4% degli anni Novanta al più 3% del
primo decennio del terzo millennio. Il progresso negli indicatori sociali, quindi, ha rallentato nonostante le
maggiori risorse a disposizione. A fare eccezione sono l’Asia meridionale, che ha mantenuto lo stesso ritmo di
crescita dopo il 2000, e l’Africa sub-sahariana, che ha invece registrato progressi più rapidi nell’ultimo
decennio. Entrambe queste regioni partivano da livelli molto bassi e devono progredire con velocità ancora
maggiore per raggiungere valori accettabili nel prossimo decennio. Nell’Asia orientale e nella regione pacifica,
il basso tasso di crescita dell’indice è dovuto in gran parte al notevole peso della Cina, un paese che può
vantare valori dell’indice relativamente alti rispetto agli altri paesi e che registra progressi molto lenti degli
indicatori sociali, in netta controtendenza con la sua crescita in termini di reddito pro-capite. Europa e Nord
America, infine, hanno valori omogenei e possono contare da tempo su livelli soddisfacenti dell’indice. Per
questo non registrano neanche progressi sostanziali. Va tuttavia sottolineato che non sono ancora disponibili
indicatori aggiornati sull’impatto della crisi, che si stima abbiano peggiorato visibilmente la situazione.
Negli ultimi 20 anni, i progressi a livello mondiale sono stati comunque significativi: i paesi con livelli
intermedi e accettabili dell’indice sono aumentati dal 40% al 61%, mentre quelli con valori molto bassi e critici
sono diminuiti dal 60 al 39%. Tra i paesi che dal 1990 sono avanzati di più c’è il Brasile, che è riuscito a ridurre in modo considerevole la povertà. All’estremo opposto si trovano i paesi dell’Africa sub-sahariana, che si
attestano ancora su livello critici nonostante i progressi dell’ultimo decennio e la disponibilità di petrolio e
ricchezze naturali di cui gode questa regione. Tra i paesi in via di sviluppo, il Guatemala e il Belize hanno fatto
grandi passi in avanti. Nel gruppo dei paesi più poveri della terra, il Rwanda ha registrato buoni tassi di sviluppo umano, mentre il Sudan non è riuscito a invertire il suo trend negativo.
Un tale scenario richiede leadership e senso di responsabilità da parte dei paesi industrializzati, che dispongono
delle risorse per aiutare le nazioni meno sviluppate a uscire dalla spirale della povertà. Gli aiuti promessi e mai
stanziati dall’Italia a questi paesi sono perciò un segnale molto grave. La percentuale del PIL italiano destinata
all’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) è scesa dallo 0,22% del 2008 allo 0,16% del 2009, in controtendenza
con i maggiori paesi europei, che nonostante i tagli dovuti alla crisi hanno mantenuto o aumentato gli
stanziamenti per la cooperazione internazionale. L’Italia è quindi ben lontana dall’obiettivo intermedio che si era
data insieme ai Paesi dell’UE di raggiungere lo 0,56% del PIL in APS entro la fine del 2010. Così come è
lontana dall’obiettivo finale di arrivare allo 0,7% del PIL entro il 2015. Ma il problema non finisce qui. Le lacune della cooperazione italiana stanno avendo un impatto nefasto anche sulla tabella di marcia dell’Unione
Europea, che non ha raggiunto il traguardo collettivo dello 0,56% in buona parte a causa del nostro Paese.
L’Italia è infatti responsabile del 40% dei fondi mancanti, ovvero di circa 4,4 miliardi di euro. Tutto questo è
accaduto, paradossalmente, nell’Anno Europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale.

Per ulteriori informazioni: Gabriele Carchella Cell +39 320 4777 895 Email: gabriele.carchella@oxfamitalia.org;
www.socialwatch.it