Rio +20: il futuro che non vogliamo

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Rio +20: il futuro che non vogliamo

Rio +20: il futuro che non vogliamo
di Antonio Tricarico
Nessuna visione per il futuro nel summit che doveva «aggiornare» lo storico Vertice della terra del ’92. Mentre il Pianeta affonda nella crisi ambientale, sociale ed economica
Nnimmo Bassey, presidente degli Amici della Terra internazionali, lascia l’incontro tra il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, e i rappresentanti del Vertice dei Popoli con un sarcasmo tranchant. «Gli ho detto che da oggi la carta delle Nazioni Unite inizierà così: ‘Noi, le corporation delle Nazioni Unite…’. Ma per Ban Ki-moon questa è la migliore partnership con il settore privato mai riuscita».
A venti anni dallo storico incontro di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo, cala il sipario sul vertice di «aggiornamento», ma anche su un ciclo storico che lascia le Nazioni Unite con ben poca credibilità nel mare in tempesta delle crisi economiche, sociali e ambientali che affliggono il pianeta. Di fronte all’ingerenza delle istituzioni finanziarie internazionali, quali la Banca mondiale e il Fondo monetario, e dopo la nascita della potente Organizzazione mondiale del commercio nel 1994, le Nazioni Unite sono sempre state viste come un’ancora di salvezza, o quanto meno di speranza, per far avanzare un’agenda basata sui diritti sociali e umani e sulla difesa dell’ambiente. Nonostante le mille imperfezioni, il Palazzo di vetro nell’immaginario di molti è sempre stato un bastione atto a frenare la travolgente globalizzazione liberista, o quanto meno a mitigare le sue conseguenze più acute.
Anche vent’anni fa era chiaro quanto fosse contraditorio nella comunità internazionale coniugare il mantra della crescita economica capitalista con il rispetto dei limiti ecologici del pianeta e la redistribuzione globale della ricchezza. Il summit del 1992 però è stata l’occasione per la nascita di un’infinità di nuovi attori nella società civile. Prima di tutto nel mondo accademico e nelle amministrazioni locali, che negli ultimi decenni hanno cercato di costruire politiche e pratiche alternative. Oggi questo popolo transnazionale, che racchiude idee e prospettive differenti, non trova rappresentanza neanche alle Nazioni Unite. La maggiore democraticità che contraddistingue il funzionamento dell’Onu rispetto al G20 o al Fondo monetario non è più garanzia di alcun cambiamento effettivo nelle sostanza delle politiche decise. Anzi, le Nazioni Unite oggi concedono una legittimità finale all’economia verde di mercato a vantaggio del grande business e della finanza globale, ponendo fine a ogni possibile illusione. Un vertice con parecchie migliaia di delegati è servito solo a confermare a fatica una parte dei principi sanciti nel 1992: il resto è annacquato ed è stato sancito che il mercato è l’unica via.
La nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) fuori del sistema delle Nazioni Unite, nel 1994 – una mossa fortemente voluta dagli Stati Uniti, allora vincitori della Guerra Fredda – ha generato una rincorsa perenne in termini di credibilità del Palazzo di Vetro dietro alle altre e più potenti istituzioni internazionali. La Wto ha creato un sistema di diritto commerciale internazionale parallelo a quello dei diritti umani creato in 50 anni nelle Nazioni Unite e mai riconciliato con il primo. Una tensione che ha subordinato le materie non commerciali, economiche e finanziarie al business e all’andamento dei mercati mondiali.
Con la crisi economica iniziata negli Usa nel 2007, la risposta è stata la creazione del G20 come nuova cabina di regia economica planetaria, certificando così ancora di più questa spaccatura tra diritti dei mercati e diritti dei popoli. Le Nazioni Unite si sono deliberatamente lasciate andare come facile terreno di conquista per il grande business, nella speranza che questo ridesse credibilità e risorse finanziarie. Una strategia ingenua e fallimentare, che emerge oggi in tutta la sua evidenza nel flop di Rio.
In questo gioco i paesi emergenti mostrano una preoccupante doppiezza: dietro la retorica del «Sud», ora che possono negoziare sempre più alla pari con le vecchie potenze ora separano ben volentieri economia e diritti, rendendo le Nazioni Unite «compatibili» con i mercati globali. Il governo brasiliano, in qualità di padrone di casa, ha una grande responsabilità per questo fallimento, avendo imposto in maniera unilaterale la sua linea di basso compromesso pur di affermarsi come nuova potenza «affidabile» a livello mondiale per i mercati e i poteri che contano.
A fronte di crisi multiple che si intrecciano ed esasperano a vicenda, le istanze di una autentica trasformazione dell’economia mondiale fuori dal dogma del grande capitale non hanno più uno spazio istituzionale dove farsi sentire. I movimenti sono sempre più disillusi dai propri governi e dalle istituzioni, incluse le Nazioni Unite, ma soffrono anche loro il disorientamento portato dagli impatti delle crisi, ripiegandosi spesso a livello nazionale o regionale nella difficoltà di riallacciare un’agenda globale fuori dalle istituzioni. Come ricordato in questi giorni dal sociologo Edgardo Lander, con l’economia «verde» dei potentati internazionali entriamo sempre più in una società post-democratica, che probabilmente richiede strategie e risposte diverse da quelle del passato.