Una firma per il disarmo. Perché un’altra difesa è possibile, anche senza F-35

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Una firma per il disarmo. Perché un’altra difesa è possibile, anche senza F-35

I momenti di crisi impongono nuove soluzioni. Nessun comparto è esonerato dall’impegno di rompere con il passato, escogitando modelli innovativi di spesa ed organizzazione. Nessuno, nemmeno quello della Difesa. È questa la posizione che il ministro Giampaolo Di Paola ha assunto nel messaggio di fine anno rivolto alle Forza Armate, dove ha annunciato la necessità di misure di austerità anche per il settore militare.
“Oggi, lo strumento militare, così come è strutturato, non è più sostenibile – ammette -. Questa è la realtà. E la realtà, oggi, impone una revisione dello strumento per conservare ciò che più conta, la sua operatività e la sua efficacia”.
Che la scarsità di risorse possa trasformarsi in opportunità per una  inversione di rotta? A quanto pare, di interventi correttivi ce ne vorrebbero diversi per cambiare il volto dell’attuale sistema difensivo italiano, carrozzone che si regge in piedi su cifre esorbitanti. Solo per il 2010, il Sipri (Istituto Internazionale di Stoccolma di Ricerche per la Pace) ha calcolato una spesa dell’Italia pari a 37 miliardi di dollari, il 2,3% della spesa militare mondiale. Oggi, il bilancio della Difesa equivale a 23 miliardi di euro, a cui si vanno a sommare 1,4 miliardi per le missioni all’estero.
Il fatto è che ci sono capitoli di spesa che sembra difficile eliminare o ridurre. Iniziamo dagli organici: come appare sul dossier pubblicato da Repubblica, oggi i militari ammontano a 180 mila unità. Di Paola punterebbe ad un netto ridimensionamento, fino addirittura a raggiungere le 90 mila unità. Obiettivo ragionevole, visto che gli stipendi valgono il 62% dell’intero bilancio, ma non ottenibile in maniera facile e veloce. Ed il ministro lo sa bene: “Non possiamo licenziare – sembra aver scherzato -, ci vorrebbe una guerra o un terremoto”.
Ma i lacci che vincolano le scelte del Ministero della Difesa non riguardano solo i dipendenti. Al momento, resta infatti in vita l’ordine avanzato dall’Italia per potersi dotare di 131 cacciabombardieri F-35. Detti anche Joint Strike Fighter, sono i mezzi più costosi mai esistiti: qualcosa come 200 milioni di euro per ciascun esemplare. Una cifra destinata a salire, viste le numerose modifiche che si sono rivelate necessarie al progetto originale. Il nostro Paese dovrebbe quindi sborsare molto più di 15 miliardi nell’arco di dodici anni per aerei che hanno ricevuto molte critiche anche dagli esperti. In pratica, un’intera manovra finanziaria per qualcosa che è ancora molto lontano da un livello soddisfacente di efficienza.
Dunque, che fare? Le alternative ci sono: si tratta di quelle già da tempo proposte da cittadini e associazioni che hanno preso in mano, e sul serio, l’articolo 11 della Costituzione italiana. “Taglia le ali alle armi” è il nome della campagna promossa da Sbilanciamoci, Rete Italiana per il Disarmo, Tavola della Pace e Unimondo, una petizione per chiedere al governo di non procedere all’acquisto dei 131 F-35, destinando i fondi risparmiati alla garanzia dei diritti dei più deboli e allo sviluppo del paese.
15 miliardi per costruire 2 mila nuovi asili nido pubblici, mettere in sicurezza le oltre 10 mila scuole pubbliche che non rispettano la legge 626 e le normative antincendio, garantire un’indennità di disoccupazione di 700 euro per 6 mesi ai lavoratori parasubordinati che perdono il posto di lavoro.
Basta un clic per far prevalere questa voce: su www.disarmo.org/nof35 si può infatti facilmente aderire all’appello di “Taglia le ali alle armi”. Un no per dire al ministro Di Paola che un’altra idea di difesa è possibile.
Laura Gianni