Processo Falascaia: quattro condanne

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Processo Falascaia: quattro condanne

falascaiaManager e tecnici di Tev-Veolia inquinarono il torrente Baccatoio
PIETRASANTA. Colpevoli di aver violato l’articolo 674 del codice penale per cui è punito con l’arresto fino ad un mese o con una sanzione fino a 206 euro “chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti”. La vicenda è quella dello sversamento nel torrente Baccatoio delle acque inquinate dalla diossina, provenienti dall’inceneritore di Falascaia.
La sentenza è stata emessa dal Tribunale di Lucca, giudice monocratico Valeria Marino, a carico di ThIerry Pierre Marie Hubert, Enrico Fritz, Marco Albertosi e Stefano Danieli, tutti manager e tecnici di Tev-Veolia, per i quali il giudice ha sospeso la pena. Ma gli imputati dovranno risarcire i danni patiti – così indica il dispositivo della sentenza – da Comune di Pietrasanta, Regione, Consorzio di bonifica della Versilia, associazione Wwf. Oltre al danno morale per tutte le altre parti civili, nella misura di mille euro a testa. Gli imputati sono stati condannati anche al pagamento delle spese legali per le parti civili assistite dagli avvocati Enrico Marzaduri, Sergio Nunzi, Fabio Ciari, Alessio Menconi, Gabriele Dalle Luche, Ilaria Bartoli e Filippo Antonini.
Falascaia, dal processo elementi choc sui rifiuti pericolosi
Inceneritore Falascaia-1I rifiuti liquidi dell’inceneritore di Falascaia a Pietrasanta hanno fatto per anni il giro della Versilia, trasportati dalle ditte specializzate verso gli impianti di depurazione dell’acquedotto pubblico. Con un codice identificativo non pericoloso, si sono così mescolate agli scarichi urbani anche le acque contaminate provenienti dalla vasca di prima pioggia e dalle parti interne dell’impianto. Questa, almeno, è una delle accuse contro sei imputati, responsabili a vario titolo dell’inceneritore pietrasantino per le aziende Tev e Veolia. Si tratta di manager e capi tecnici al lavoro negli anni 2005-2010. Si chiamano Thierry Pierre Marie Hubert, Francesco Sbrana, Enrico Friz, Stefano Ghetti, Marco Albertosi e Stefano Danieli e sono difesi da un pool di avvocati provenienti da Milano, Firenze, Massa.
Alla seconda udienza del processo, celebrata ieri nel tribunale di Lucca, gli amministratori versiliesi non erano presenti, neppure il sindaco di Pietrasanta Domenico Lombardi. Si è fatta vedere invece l’assessora all’Ambiente e vicepresidente della Provincia Maura Cavallaro che a Pietrasanta ci vive . In compenso, dopo le varie eccezioni è iniziato il dibattimento e il 9 gennaio 2014 è diventato un’altra data storica della lunga vicenda del termovalorizzatore sorto nella campagna fra Camaiore e Pietrasanta.
Mentre Gaia spa – dal 2004 il gestore unico del servizio idrico della Toscana nord – non ha voluto costituirsi parte civile, il Comune di Camaiore ha tentato di inserirsi all’ultimo tuffo ma la sua richiesta è stata respinta dalla giudice Valeria Marino, in apertura di udienza.
Amareggiato, l’assessore all’Ambiente camaiorese Davide Dalle Mura ha detto: “Noi almeno ci abbiamo provato”. Si accontenta invece degli aspetti penali il gestore idrico, che pure viene espressamente menzionato nel capo B del rinvio a giudizio: gli imputati “inducevano in errore la società Gaia spa” e le causavano “un danno patrimoniale di rilevante gravità”.
L’acquedotto, sostiene l’accusa, non avrebbe potuto in alcun caso ricevere liquidi classificati Cer 19.01.06, ma soltanto i reflui fognari e le acque di seconda pioggia trattate. Invece, secondo gli inquirenti, potrebbe aver digerito almeno 900 mila tonnellate di liquidi contaminati. Si sa che smaltire rifiuti pericolosi, anche allo stato liquido, costa di più e quindi il pubblico ministero Lucia Rugani ha ipotizzato che i vertici aziendali abbiano deciso di risparmiare in questo modo “svariate migliaia di euro”.
Grossi camion, per molti anni, hanno aspirato l’acqua dall’inceneritore classificata con il codice Cer 20.03.06 (non pericoloso) e l’hanno portata a Querceta, Pietrasanta e Camaiore. Sono i mezzi guidati dai tre figli di Luciano Giannarelli, titolare della ditta di autospurgo del Crociale a Pietrasanta. Per i loro tubi sarebbero passati per l’accusa anche migliaia di tonnellate di rifiuti pericolosi (200 mila nel 2009, ad esempio) che i tre hanno trasportato verso ditte specializzate come la Teseco di Pisa.
Ascoltati in aula hanno reso le loro dichiarazioni e c’è chi ha ammesso di non sapere quale fosse la vasca di prima pioggia e quale quella di seconda pioggia. L’attribuzione dei codici ai diversi liquidi, hanno raccontato, era compito degli uffici della compagine italo-francese ai vertici dell’impianto.
Aspiravano l’acqua “dal cassone” e dalle vasche interrate dove finiva anche il percolato della vecchia discarica sul retro dell’impianto e i liquidi potenzialmente più pericolosi perché derivanti dalla pulizia delle macchine, delle caldaie. Raccoglievano l’acqua della fossa biologica e del piazzale, senza dimenticare gli interventi d’urgenza sotto la pioggia battente.
La differenza fra acque di prima e di seconda pioggia l’ha spiegata invece Max Strata, l’ex della polizia giudiziaria della Procura di Lucca, protagonista delle indagini del 2010. Il teste più importante della giornata, oltre a parlare per ore dei riscontri fra le fatture, i formulari di accompagnamento e i codici Cer, ha descritto le caratteristiche dell’impianto anche a chi, in aula, non aveva mai guardato un inceneritore in vita sua.
Nella prima vasca finisce la pioggia che cade a terra fino a 5 millimetri di spessore e che segue poi un percorso di depurazione, tramite sostanze chimiche e filtri. La seconda vasca raccoglie tutto il resto dell’evento meteorico che viene ripulito anch’esso in vari passaggi.
Gli inquirenti, spulciando le fatture nel 2010, hanno scoperto che a Falascaia non si compravano più i prodotti per lavare l’acqua. L’ispezione nella vasca delle acque di seconda pioggia, ha raccontato Max Strata, mostrò un sedimento alto fino a 20 centimetri contaminato dalla diossina, sostanza non solubile e poco volatile.
Alcune fotografie agli atti nel fascicolo processuale, mostrano il vapore sprigionatesi nel momento in cui acqua calda – sono le cosiddette acque di processo – sarebbe stata scaricata abusivamente nel piccolo fiume a nord dell’impianto. Una pratica in uso soprattutto di notte, stando alle testimonianze.
La diossina è stata trovata anche 130 metri a monte dello scarico autorizzato dell’impianto, in corrispondenza di un tubo pirata e tre chilometri più a valle, alla foce dello sventurato Rio Baccatoio, già inquinato dai residui delle ex miniere Edem. Fortuna che l’intero impianto, sorto sulle ceneri – è il caso di dirlo – di un altro più vecchio, è circondato da una zona definita nel regolamento urbanistico pietrasantino “a prevalente destinazione agricola e forestale”, nonché come “pianura di particolare valore ambientale”.
Max Strata, in risposta alle domande dei difensori degli imputati, ha spiegato che questo dettaglio, abbassa i limiti di riferimento consentiti per gli agenti inquinanti. E che il piccolo fiume destinatario degli scarichi, poteva soffrire di ben più di 120 giorni all’anno di secca e quindi dovevano essere presi accorgimenti specifici.
Poi ci sono i verbali degli interrogatori condotti durante l’indagine che portò al sequestro dell’inceneritore, il 7 luglio del 2010. I prossimi testi, convocati per l’udienza del 6 febbraio, dovranno confermare le dichiarazioni rese agli inquirenti, alcune di queste abbastanza scioccanti. A Falascaia, in certi periodi, si sarebbero accumulati sui pavimenti alcuni metri di residui contaminati, rimossi e insacchettati con le vanghe dagli operai.
Dovrà essere ascoltato nuovamente anche il consulente tecnico della Procura, Federico Serena dell’Arpat di Mestre, che per ultimo ieri ha velocemente illustrato in aula la sua relazione, mettendo il carico da dodici: l’impianto di depurazione di Falascaia – secondo i documenti studiati e le verifiche in loco – era sottodimensionato rispetto alle esigenze e non era conforme ai progetti autorizzati, fin dalla sua costruzione e collaudo nel 2002.
Le vasche comunicanti, gli scarichi incerti e la selva di by-pass azionabili manualmente, aggiunti per far scivolare le acque lungo percorsi che neppure l’esperto è riuscito a ricostruire appieno: questo ha descritto il consulente davanti al giudice Marino ieri pomeriggio e il seguito andrà in scena il 27 febbraio, con gli avvocati difensori che pensano già al confronto diretto con i propri esperti. Daniela Francesconi