Esclusiva, l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema raccontato da un testimone

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Esclusiva, l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema raccontato da un testimone
Particolare del Sacrario ai caduti di Sant’Anna
s.anna
STAZZEMA (Lucca), 11 agosto – Il 12 Agosto 1944 a Sant’Anna di Stazzema si consuma una delle stragi più terribili della seconda guerra mondiale: 560 persone vengono uccise in meno di mezz’ora, almeno 140 sono bambini. Enrico Pieri, presidente Associazione martiri, ha accettato di raccontare a LoSchermo.it la sua storia.
Nato a Sant’Anna il 19 aprile 1934, quel giorno aveva 10 anni, la sua famiglia era composta da padre, madre e due sorelle, tutti morti nell’eccidio.
“Era una bella mattina di sole – ricorda con gli occhi ancora lucidi – io, come tutti i ragazzi, avevo il compito di far pascolare le pecore”.
Ce lo racconta dal tavolo di un bar nella piazza principale di Pietrasanta, ma l’impressione è che abbia ancora davanti agli occhi i suoi monti, come erano allora.
E i sentieri fra i castagni: “Lì c’era il lavatoio, con una fontana – indica col dito – la scuola si trovava dove ora c’è il museo”.
E poi, a spezzare l’idillio, la guerra. A distruggere con la violenza l’illusione di vivere su un isola serena, nel mare dell’orrore che stava ingoiando il mondo.
“La guerra è iniziata in quella Polonia che sembrava dall’altra parte del mondo e poi è venuta a finire a Sant’Anna. La vita è così”. E anche la morte.
Come si viveva a Sant’Anna durante il conflitto?
“A Sant’Anna si viveva come nell’800, senza elettricità, senza servizi, senza strade: si portava tutto in collo o tenevi l’asino o tenevi la mucca. E la gente preferiva tenere la mucca. Era una vita dura: le case erano composte da stalla, cucina e camera. Il 900, da noi, è arrivato dopo la guerra”.
Eravate preparati a delle rappresaglie?
“Dopo che bruciarono Farnocchia ci aspettavamo qualcosa, avevamo nascosto il grano nelle damigiane e s’era sotterrato tutto, insieme alla biancheria, ma mai ci saremmo aspettati un crimine così. Quella mattina, non ci siamo resi conto di cosa stava succedendo. Da quando ci hanno avvisato che arrivavano i tedeschi a quando è finito tutto passarono meno di 30 minuti. Era una squadra creata per terrorizzare la popolazione, non per fare la guerra. Avevano fatto altre azioni anche in Russia. Ma questo l’abbiamo saputo solo al processo. E’ stata una strage pianificata, volevano fare terra bruciata: hanno iniziato alle 4 del mattino alle Moline di Stazzema. Son partiti da Pietrasanta già preparati, circondarono il paese da 4 parti, nessuno poteva scappare”.
Ci racconta il “suo” 12 agosto?
“La mattina del 12 agosto intorno alle 7, ci avvertirono che stavano salendo i tedeschi. Il babbo il nonno e gli zii fecero una piccola riunione e decisero di rimanere a casa, perché il nonno, il giorno prima, aveva ammazzato una mucca, e l’aveva attaccata in cucina. Il signore che ci aveva avvisato dei tedeschi, era il macellaio, che era venuto per dividerla e spezzarla. Sant’Anna si era riempito di sfollati, un pezzo di carne era oro, per questo decisero di rimanere, ben sapendo che sarebbero andati incontro a qualcosa di brutto: mio padre aveva fatto il carabiniere, era stato nel Montenegro, sapeva cosa volevano dire le rappresaglie e la guerra, ‘ci prenderanno come ostaggi’ diceva, ma non pensava ad una cosa così.
La mamma, che aspettava il quarto figlio, fece alzare Luciana, la mia sorellina di 4 anni.
Quando arrivarono i tedeschi, eravamo tutti intorno al tavolo e ‘Raus! Shnell!’ ci spinsero fuori verso la piazza della chiesa. Camminavamo insieme alla famiglia Pierotti, di Pietrasanta, sfollata in casa di mia nonna: improvviso arriva un contrordine, e ci fanno entrare dentro la cucina della famiglia Pierotti, che era anche camera da letto. C’erano i materassi, le coperte, si erano alzati di fretta: appena entrammo iniziarono a sparare. In 5 minuti sterminarono due famiglie.
Una della bambine Pienotti, Grazia, di 13 anni, mi chiamò dal sottoscala e mi mise in salvo, mentre l’altra, di 11 anni, si buttò fra i materassi e si finse morta.
I tedeschi poi presero la paglia e dettero fuoco alla casa. Ma la paglia aveva ancora il grano attaccato – bisognava aspettare il segretario del fascio perché vedesse quanto grano si produceva – e non bruciava bene, per nostra fortuna, perché i pavimenti ed i soffitti erano di legno. La cucina però, si riempì di fumo.
Come abbiamo sentito che la confusione si era un po’ calmata, abbiamo attraversato la cucina e siamo andati fuori, dove c’era una piana di fagioli, e ammutoliti, siamo rimasti lì diverse ore, in silenzio, non si piangeva.
Si sentiva sparare, era l’inferno. Poi più niente, solo le case che crollavano. Intorno alle 17 ci incamminammo verso la casa di una famiglia che conoscevo e lì abbiamo iniziato a piangere. Ci raccontarono quello che era successo, ci dissero che davanti alla piazza della chiesa c’era una montagna di morti.
Prima che facesse buio, tornai a casa, vidi le case distrutte, il pero bruciato, provai a spengere il fuoco appiccato ad una trave: con un recipiente andai al lavatoio e presi dell’acqua. Ma che potevo fare, avevo 10 anni.
I miei genitori furono seppelliti nella piana dei fagioli dove ci eravamo salvati noi. Li’ per li’ non ti accorgi di essere rimasto solo”.
Perché proprio Sant’Anna?
”Ancora me lo chiedo. Anche se c’è stato un processo dopo 60 anni. Era un paesino, non so perché proprio Sant’Anna: non c’erano molti partigiani. Anche dal lato della strategia militare, non c’erano strade, non c’era niente. Non c’era un tedesco, non avevano ammazzato un tedesco a Sant’anna, non c’era motivo. E’ vero che avevano messo dei manifesti che si doveva sfollare perché non volevano che i partigiani trovassero appoggio fra la popolazione. Ma pochi li avevano letti, e poi non si sapeva dove andare. C’erano gli animali, c’erano le pecore, le galline: gente per cui la mucca era una cosa sacra, nessuno si sarebbe mai allontanato dalla casa. È stata resistenza anche questa: resistenza passiva”.
C’erano partigiani a Sant’Anna?
“Non molti. Tanti si son trovati in montagna mica perchè erano partigiani ma per salvare la pelle. Non era una scelta politica: i più erano sprovveduti politicamente. Venivano tutti dalla scuola fascista. Erano imbevuti di fascismo fin sopra i capelli. Anche avere un figlio in montagna non era facile, era pericoloso, non si doveva sapere, si sapeva che erano militari, che erano andati via”
Come funzionava il passaggio del fronte?
“C’era un gruppo di partigiani che aveva organizzato delle staffette: a Massa tenevano i registri di chi passava il fronte, alcuni volevano essere pagati. Gli sciacalli ci sono da tutte le parti. Anche a Sant’Anna, dopo la strage, c’era chi andava a cercare qualcosa da prendere”.
Come è iniziata la sua collaborazione con il “Museo storico della resistenza”?
“Ero emigrato in Svizzera – non mi volevo avvicinare alla Germania perché in quel periodo provavo rancore, i primi tempi anche odio – Poi nel 92 sono rientrato in Italia e mi chiesero di collaborare alla formazione del museo. All’inizio non volevo parlare, poi mi sono accorto che di memoria ce n’è bisogno. A volte queste testimonianze sono difficili, però devo essere sincero, mi succede che se sono giù di morale, stare una mattinata con i ragazzi mi rincuora un po’”.
E’ mai stato in Germania?
“L’anno scorso sono andato a Colonia e mi sono accorto che la guerra l’hanno pagata anche loro e che anche loro hanno bisogno di memoria. Se noi vogliamo trasmettere ai giovani dove è nata l’Europa, dobbiamo tenere viva la memoria. A Sant’Anna, a Marzabotto, nei campi di concentramento: anche lì s’è fatta l’Europa. E di Europa ce n’è bisogno. Io sono orgoglioso di essere europeo”.
Ci sono tedeschi che vengono a visitare il museo?
“Alcuni sì. Quando vedo salire dei giovani tedeschi che vengono a vedere che cosa hanno fatto i loro nonni a Sant’Anna mi fa piacere. All’inizio non l’avrei accettato. Il perdono è una cosa personale, ma devo dire che l’odio non porta da nessuna parte”.
Foto di Domenico Bertuccelli per LoSchermo.it
http://www.loschermo.it/articoli/view/28450