«Io designer sputo nel piatto del mercato» ecco l'architetto dell'Eco-disiner

Home Ambiente «Io designer sputo nel piatto del mercato» ecco l'architetto dell'Eco-disiner

Paolo Deganello«Io designer sputo nel piatto del mercato»
Paolo Deganello, basta stimolare desideri più o meno pretestuosi e forzati della merce, adesso non ha più senso. Le risorse sono finite, più cultura del progetto
Paolo Deganello, è uno dei pilastri della storia del design a livello internazionale. La sua storia inizia con il gruppo Archizoom Associati nel 1966. Attivo politicamente, era un militante di Potere Operaio. Quelli fino al ‘73 furono anni caratterizzati da scontri, liti e duri confronti tra i componenti del gruppo Archizoom (Andrea Branzi, Luca Corretti, Paolo Deganello, e Ferdinando Morozzi, a cui poi si aggiunsero, Dario e Lucia Bartolini) ma contraddistinti da idee, forza, vitalità, istinto; elementi che hanno dato vita e impulso alla storia del pensiero del design, ribaltando i canoni fino a quel momento validi. Dal ‘74 in poi la storia di Paolo Deganello prosegue su un binario unico e punta sulla forza e l’imponenza della sua personalità. Per Deganello il design non deve più essere quello “istituzionale” il cui emblema può essere letto nello spremiagrumi Juicy Salif (per Alessi) di Philippe Starck.
BASTA CON IL DESIGN CHE PORTA ALLA SOVRAPRODUZIONE DI MERCE OBSOLETA
Ho sottolineato che la funzione del design di stimolare desideri più o meno pretestuosi e forzati della merce, adesso non ha più senso. Ho sostenuto che con lo spremiagrumi di Starck, che resta comunque un capolavoro della postmodernità e della società del benessere, si deve considerare conclusa quella stagione di un design votato alla continua e artificiosa stimolazione del desiderio di possesso di nuova merce. Ridisegnare all’infinito sedie, spremiagrumi, letti e lettini, auto, sempre più apparentemente nuovi, porta ad una sovraproduzione spaventosa e ad un’obsolescenza del significato stesso della merce.
DESIGN RESPONSABILE Questo comporta inevitabilmente uno spreco di risorse, una crescita illimitata che non è più possibile. Finora il design non si è mai posto il problema della finitezza delle risorse, oggi deve necessariamente farsene carico ed evitare di invogliare un iperconsumismo di merci che comporta una sempre più drammatica distruzione di risorse. Non basta occuparsi di dare bellezza a qualsiasi merce, bisogna puntare su merci che vengano sì migliorate, ma in funzione di un recupero di abitabilità.
È IN CRISI L’IDEA STESSA DI CONSUMO C’è in atto una crisi dell’idea di consumo. Tutti i mass media continuano a proporci la gioia di comprare e consumare; vediamo quotidianamente un’Italia in coda a tutti gli outlet con gli sconti. Si cerca di nascondere la fine di una società del benessere, questo mi sembra il messaggio più chiaro: dietro la crisi finanziaria c’è, in realtà, una crisi di sovraproduzione. Non ha più senso produrre come produciamo, essendo in atto il problema del clima, del degrado ambientale, della fine delle risorse. Mentre noi continuiamo a suonarci l’inno alla gioia del benessere non vediamo che questa crisi ha chiuso l’epoca della società del benessere».
Philippe Starck ha detto, basta con il design, punto sull’ecosostenibilità
Il mese scorso la Star francese ha inaugurato un hotel di lusso sul Canal Grande …
Si può fare un lusso sostenibile che è sempre meglio di un lusso inquinante, ma il problema è che non ha più senso il lusso. Tuttavia il lusso è un mercato e allora si pone una grande questione complessa, che è: se un progettista è al servizio di una tendenza ormai perversa del consumismo, che si cerca di difendere perché esistono delle strutture di potere che hanno interesse che il mondo continui ad andare come è andato fino ad adesso, ci sarà chi continuerà a offrire la sua genialità progettuale al mercato del lusso. Ci sono però anche dei progettisti che si pongono il problema e si rifiutano di assumere questo ruolo. Io credo che sia ormai giunto il momento per rifiutare quello che è stato il ruolo del design di abbellire qualsiasi merce, di promuovere qualsiasi tipo di spreco nascondendosi dietro l’estetico. Credo che il cultore del progetto debba rifiutare questo ruolo e chiedere di dare bellezza solo a quelle merci in grado di affrontare i grandi problemi del degrado ambientale, dell’iniqua distribuzione delle risorse o del cinico sfruttamento di una minoranza da parte della maggioranza dell’umanità.
L’inglese BBC2 ha mandato in onda un talent – reality show sul design,
12 giovani selezionati da Philippe Starck, farlo in Italia, no?!
(Si veda l’articolo su Ilsa Parry vincitrice di “Design for life” QUI)
Spero che questo non venga mai fatto in Italia. E non perché non stimi il lavoro e molti progetti di Starck, come d’altra parte ha fatto lui più volte nei miei confronti, ma perché non credo che sia compito di Starck o di altri designer scegliere, nominare o fare le classifiche dei meritevoli giovani designer. Sia l’apprezzamento dei consumatori, della critica qualificata, della cultura, della qualità critica dei loro progetti a sceglierli. Lo star system è un’involuzione volgare e avvilente del nostro ruolo di diffusori dell’estetico attraverso le merci.
L’eco design non è pensiero progettuale evoluto, non genera elementi reali e non dà emozione ambientale, è il pensiero di Andrea Branzi, cosa ne pensa?
Il designer oggi deve porsi questo tipo di problema: l’ecocompatibilità, fare in modo che le merci non siano occasione di distruzione di risorse e di degrado ambientale. La sigla ecodesign mi piace e non mi piace, in quanto può essere usata per legittimare un continuo restyling di prodotti dichiarati obsoleti perché non hanno qualcosa di ecologico. Se ecodesign diventa una moda è un semplice cambiamento di stile, se viene utilizzato come legittimante, la produzione e il consumo delle stesse merci un po’ più “verdi”, è solo una nuova immagine per vendere delle merci che non si riesce a vendere in altro modo. Si fa solo la promozione di nuovo consumo sfruttando con cinismo la nuova visione ecologica.
BIO DESIGN E NON ECO DESIGN Questa operazione viene fatta in molti casi e l’ecodesign diventa così un prodotto di lusso, e io con questo tipo di progetto non mi identifico. Io infatti ho chiamato il mio corso di design Bio Design, perché faccio riferimento a un tentativo fatto dall’agricoltura di ripensare radicalmente tutte le tecniche di coltivazione e distribuzione degli alimenti, orientando la produzione in un’altra direzione, penso per esempio alla domanda di alimenti “bio” promossa dai G.A.S (Gruppi di Acquisto Solidali), una piccola ma significativa rivoluzione nell’agricoltura che propone un nuovo concetto di merce. Un progettista può lavorare sulla base di quello che richiede il mercato o sulla base di quello che reputa innovativo, cioè deve essere capace di venire in contro a domande emergenti, anche se minoritarie, ma socialmente utili come ad esempio la domanda di alimenti dei G.A.S; io non progetto per il mercato ma cerco di rendermi disponibile per queste nuove domande.
IL MIO PROGETTO È RADICALE In un libro di Deyan Sudjic The language of things si afferma che il designer non può sputare sul piatto in cui mangia, cioè sul mercato, sulla logica produttiva che il mercato impone, perché il suo successo è legato al consenso del mercato. Io ho fatto per 40 anni questo mestiere, adesso ho pubblicato in Portogallo un libro Le ragioni del mio progetto radicale, in cui spiego che è possibile un progetto contro il mercato, sputando sul piatto in cui il designer ha mangiato.
LA CULTURA DEL PROGETTO Io non sono diventato un ricchissimo designer, anzi ho faticato a costruire le condizioni della mia sopravvivenza e della mia famiglia, ma ho cercato di dimostrare che con la cultura del progetto si può rimettere in discussione il già fatto, e che si possono scegliere i possibili destinatari di un progetto tra quelli che portano avanti un discorso a lui più affine. Il nostro controprogetto per l’Expo, (L’architetto fa riferimento alla petizione sull’Expo di cui è promotore, leggi l’articolo QUI), ha avuto più di 1300 adesioni, tra cui l’approvazione di architetti che stimo come Mario Botta e Gae Aulenti, designer come Enzo Mari e Alberto Meda, critici come Germano Celant e uomini di marketing come Ampelio Bucci o imprenditori come Roberto Sarfatti a dimostrazione che esiste lo spazio, o per lo meno c’è un grande bisogno di progetti diversi da quelli che l’attuale cultura o incultura al potere impone. Tutte le innovazioni sono sempre state istanze di minoranze che a volte hanno avuto un consenso più esteso e a volte sono rimaste istanze di minoranze, ma sono parte insostituibile della storia.
Ci racconti l’esperienza di Archizoom e della stagione del design radicale anni ‘70
L’esperienza Archizoom che è legata ad un contesto storico profondamente diverso dall’attuale è stata un’esperienza eccezionale, perché esistevano quattro e poi sei personalità che con grande passione si confrontavano sui grandi temi che allora quella cultura conflittuale, contestativa, che il gruppo aveva sposato, proponeva alla società. Il progetto Archizoom è stata una risposta diciplinare, espressione progettuale di quel contesto culturale. Le ragioni dello scioglimento sono ragioni naturali, dovuti all’emergere delle posizioni individuali e alle differenze che prima erano accettate ma che poi si sono risolte in bisogno di reciproche autonomie. Io ho portato avanti una mia strada, gli altri colleghi hanno portato avanti altre strade. Io allora ero la persona più coinvolta politicamente nell’azione politica diretta, con una militanza di base, questa potrebbe essere una spiegazione della continuazione di una mia intransigenza politica nel fare progetto».
Come nasce un suo progetto di design?
«Il mio progetto nasce sulla riflessione su chi può essere il destinatario. Parto dall’idea che il mio progetto deve essere un servizio per l’altro, questi altri me li scelgo. Ne La casa in comune ( progetto del 1983) ho descritto e spiegato quali sono i criteri fondamentali del mio operare progettuale che considero ancora validi. Parto dal destinatario e dal contesto entro cui io e il destinatario dobbiamo trovare un punto d’incontro, un dialogo che risulti positivo sia per me che per lui».
Il progetto a cui è più legato?
«Per certi versi l’ultimo che ho fatto, una grande architettura sottoterra in Spagna (Can Ràfols dels Caus, Avinyonet del Pededès, Barcellona) una cantina per un’azienda vinicola. E insieme a questo La casa in comune, fatto per La Triennale, con la collaborazione di Alberto Magnaghi, che mantiene alcuni punti fermi della mia ricerca progettuale.
Serialità e unicità come si coniugano in un unico oggetto?
«È una problematica che non mi interessa. Oggi è entrato in crisi il concetto di serialità e l’unicità è la valorizzazione del senso del possesso della merce. Sono termini di una concezione del design che mi è lontanissima.
Qual’è l’opera di design che considera la più brutta?
Una considerazione di questo genere non l’ho mai fatta, non saprei, non riesco a ragionare con queste modalità mass mediatiche, non mi interessa rispondere.
Milano, 29 gennaio 2010
Amalia Di Carlo
HOUSE, LIVING AND BUSINESS
http://www.immobilia-re.eu/eco-design-non-deve-essere-solo-una-moda/
www.paolodeganello.it